Pedagogia Steiner-Waldorf: libertà o disciplina ?

Pedagogia Steiner-Waldorf: libertà o disciplina? … un mix armonioso e perfetto tra le due!
stimolare la creatività e il movimento, ma anche educare al piacere per l’ordine e alla cura per le cose..
I bimbi vivono il gioco libero, dove possono “trasformare” gli spazi per adattarli alle situazioni di gioco che la fantasia e la creatività ispira loro. Spostano mobili e giochi, strutturano nuovi ambienti, creano scenografie, si travestono con mantelli, corone ecc.. per impersonare i re, le regine i cavalieri delle fiabe o i personaggi su cui necessitano di proiettare se stessi.
Dopo la fase di gioco libero, però, al canto delle maestre che intonano la canzone del riordino, i bambini iniziano allegramente quanto alacremente a riordinare ogni cosa: anche il più piccolo mattoncino in legno ritorna al suo posto. Ogni cosa ha il suo luogo e i bambini sanno con esattezza dove riporla.
E dopo il gioco libero e il riordino, preparano gli spazi per la merenda o per un’attività.
In questa saggia alternanza voluta di gioco libero e preciso riordino, il bambino si muove, crea, impara, gioisce, si esprime, ma poi ritrova anche il suo centro e il suo ordine interiore.
Ancora non sappiamo decidere cosa ci desta più ammirazione: se la loro capacità creativa, o la gioia e rapidità con cui riescono in un attimo a riordinare tutto..

 

PEDAGOGIA STEINER-WALDORF: LIBERTA’ O DISCIPLINA.. ?… UN MIX ARMONIOSO E PERFETTO TRA LE DUE:! ;-)STIMOLARE LA…

Pubblicato da Associazione Artemis – arte e pedagogia steineriana a Trieste su Lunedì 25 gennaio 2016

Perché la scuola Steiner-Waldorf?

Un’interessante intervista a Sabino Pavone sulla pedagogia Steiner-Waldorf dal sito barbadillo.it.

Sabino Pavone è maestro, presidente della Libera Scuola Steiner-Waldorf Novalis e vicepresidente delle scuole steineriane in Italia. Ama ricordarci che è necessario riportare sui banchi giustizia, amore del fare e un sano idealismo. Perché, come sostenne il suo maestro Rudolf Steiner, “il senso della vita è dare senso alla vita”.

La scuola di oggi riesce a dare agli studenti gli strumenti per affrontare le necessità di questo tempo? È ora di riformare radicalmente i suoi programmi? Partendo da cosa?

Se una scuola rispondesse alle domande dei giovani, non staremmo qui a parlarne. Avendo la libertà di sedersi intorno a un tavolo con chi opera nell’ambito della formazione – e non solo con i pedagogisti, che pensano una realtà che poi non praticano –, ci si dovrebbe chiedere quali aspetti curriculari oggi potremmo innovare. Che cosa sarebbe utile insegnare, tenendo presente che l’uomo non ha bisogno di nutrimento solo dal punto di vista conoscitivo. Se facciamo un’analisi storica di come si è mossa la scuola negli ultimi cinquanta, sessant’anni, osserviamo che, negli anni ‘60, si è orientata ad approfondire gli aspetti più cognitivi, per raccogliere le sfide di uno sviluppo crescente; negli anni ‘70, ’80, ci si è posti il problema di quella che io chiamo vita dell’anima, la vita delle emozioni, delle sensazioni, e quindi ecco che nascono le neuroscienze, che cominciano a presupporre più forme di intelligenza e invitano ad avere cura di riconoscere tutti i talenti che porta un bambino in sé. Infine, con gli anni ’90 e il 2000, abbiamo iniziato a porci la domanda cruciale: quella sulla motivazione. Il ragazzo è intelligente, però non si applica. Quante volte abbiamo sentito questa frase? La questione è cosa significa attivare la volontà dei bambini. Perché c’è un inciampo nella volontà? Come posso farla rinascere?

Come potrebbe una buona scuola favorire l‘inserimento nel mondo del lavoro?

A rigor di logica, una buona scuola, per aiutare un essere umano a inserirsi bene nel mondo del lavoro, dovrebbe chiedersi di che cosa abbia bisogno il mondo del lavoro stesso. D’altra parte, occorrerebbe porsi anche delle domande più profonde, e cioè: che cosa porta con sé questo bambino? Quali sono i suoi talenti?

Quando, negli anni ’90, la Commissione Delors, all’Unesco, si interrogò su che cosa richiedesse il mondo del lavoro, individuò quattro pilastri: imparare a lavorare, imparare a vivere insieme, imparare a essere, e imparare a imparare. Ancora oggi rimango basito quando vedo che tantissimi insegnanti non conoscono questi principi.

Quanto ci sarebbe da dire sul fare, per esempio, il fare con le mani! Nelle nostre scuole, è un tema che viene posto fin dai primi giorni. I bambini hanno bisogno di fare, non possono stare seduti tutto il tempo. Hanno bisogno di vedere realizzate davanti a loro delle cose, hanno bisogno di avere un adulto che mostri loro come fare una cosa. Hanno bisogno di collaborare per fare qualcosa. E sono creativi, nel loro fare. Imparare a vivere insieme vorrebbe dire avere il coraggio di smontare la classe e il sistema di istruzione frontale e cercare di sviluppare gruppi di lavoro tra i bambini. La capacità di giocare insieme ha molto a che fare con il mondo del lavoro: lavorare non è altro che un giocare insieme da adulti. E poi, imparare a imparare, per tutta la vita. La scuola dovrebbe lasciare i ragazzi con la gioia di imparare, e questo richiede dei maestri che non pensino di dover riempire dei secchi vuoti, ma di accendere il fuoco della conoscenza.

Nelle nostre scuole l’arte occupa un posto centrale. Nonostante oggi ci sia l’idea che il mondo del lavoro possa fare a meno dell’arte, in realtà scopriamo che se non c’è un atteggiamento interiore un po’ artistico nel mondo del lavoro uno non riesce a cavarsela. C’è bisogno che si cominci ad amare il lavoro. Noi siamo la generazione che ha vissuto il lavoro come una punizione, non come la gioia di mettersi al servizio dell’altro, di impiegare i propri talenti per qualcosa. Non dico che tutti debbano fare il lavoro che amano, ma che provino almeno ad amare il lavoro che fanno.

Poi, bisogna considerare che i tempi con cui si fa avvicinare un ragazzo al mondo del lavoro sono del tutto sbagliati. È assolutamente fuori luogo pensare che un giovane di quattordici anni possa scegliere con determinazione il suo percorso. La consapevolezza non ce l’ha. La scuola dovrebbe essere riformata, occorrerebbe spostare il momento della scelta degli studi superiori ad almeno sedici anni e mantenere un innalzamento culturale di base all’insegna della ricerca delle qualità e dei talenti. A sedici anni, la scelta della scuola superiore sarebbe ben più efficace, ben più cosciente, ben più responsabilizzante.

Insomma, le cose da fare sono davvero tante. Il fatto di riuscire a trovarsi una professione giusta, però, non può essere l’unico obiettivo della scuola. Credo sia importante che un uomo si inserisca nel mondo del lavoro quando ha già trovato in sé tutte le sue qualità, i suoi talenti, le sue soddisfazioni, le sue ambizioni, la sua dignità. Se potessi farle un disegno, traccerei una verticale, che rappresenterebbe la verticalità dell’uomo nella sua educazione, nella sua moralità, nella sua dignità, e poi una linea orizzontale, che starebbe a rappresentare la professionalità di quest’uomo. Due assi che devono incrociarsi – perché abbiamo tante persone, oggi, che sono nutrite sul piano cognitivo – ingegneri, laureati, ministri, viceministri –, ma in ciascuno di loro manca la verticalità morale, manca la dignità.

È ancora sensato puntare a una pedagogia di tipo etico-astratto, idealistico, invece che funzionale? Non è un prendersi in giro fingendo vivo un universo di valori assoluti che la storia recente ha ucciso? La formula “serve per aprire la mente” non ha il sapore di un’illusione?

Il fatto che ci debba essere un equilibrio tra le facoltà che l’essere umano ha bisogno di sviluppare nel corso della sua formazione – cioè tra ciò che pensa, tra ciò che sente giusto, e tra ciò che fa – è una realtà che qualsiasi persona di buon senso, pur non addetta ai lavori, può cogliere con facilità.

Un punto cardine del discorso è capire quale riforma interiore, più che esteriore, deve intervenire nella formazione degli insegnanti perché entrino in classe con la gioia di incontrare i giovani, sapendo che hanno davanti a loro un pezzo importante del futuro. Quale rivoluzione non formale, intima, di ciascun singolo, è necessaria? L’insegnamento non è solo una professione. È anche una vocazione. E il nostro sistema, estremamente sindacalizzato, non risponde alla domanda delle giovani generazioni.

La scuola prepara in modo troppo unilaterale. Propone un modello specializzante, a senso unico: o fai questo o non fai altro. Non sa dare gli strumenti e le competenze di cui necessita un contesto in evoluzione così rapida; quando si esce dalla scuola, il mondo del lavoro è infatti già andato avanti di un pezzo. Quindi, il vero tema della formazione e dei curriculum dev’essere sviluppare l’attitudine a voler cercare sempre e comunque qualcosa che muova l’interesse, la volontà di partecipare all’azione.

L’alfabetizzazione di massa è un problema ormai superato. Varrebbe la pena lasciare, fin dalle elementari, più libertà di scelta agli studenti e alle famiglie, sia per quanto riguarda la possibilità di specializzarsi in certi ambiti piuttosto che in altri, sia per quanto riguarda gli orari in cui frequentare la scuola? Mantenere magari un minimo di ore obbligatorie e renderne facoltative e personalizzabili altrettante?

Quando parliamo di scuola, spesso non teniamo presente che ci sono città di 80, 90mila abitanti, ci sono paesi di 30mila abitanti e ci sono frazioni di 250 abitanti, e che gli stili di vita sono completamente diversi. Con l’istruzione obbligatoria abbiamo risolto un grande problema di cultura generale, ma il rischio cui si è andati incontro è quello di non tenere presente quanto la scuola risponda alla domanda formativa dei bambini e quanto invece risponda alla domanda delle famiglie, di poter essere libere di andare a lavorare. L’Italia, statisticamente, ha la scuola che tiene i bambini per più ore alla settimana, in particolare nei primi anni. Da istituzione educativa si sta trasformando in un servizio di babysitteraggio. Ora, è chiaro che un genitore che deve andare a lavorare dalla mattina alla sera per poter mantenere la famiglia troverebbe strani questi discorsi, e certo la scuola deve anche occuparsi di questo. Ma, se noi ci pensiamo bene, i bambini passano troppo tempo in una scuola che è pensata sulla base delle volontà e dei bisogni degli adulti, che stanca troppo. Moltissimi si alzano la mattina e non hanno voglia di andare in classe. Sono spariti quei momenti di vuoto di cui hanno tanto bisogno i bambini.

L’articolo 33 della costituzione lascia sì la libertà a tutti di istituire scuole di ogni ordine e grado, e alle famiglie la libertà di istruzione parentale, però, di fatto, questa è una libertà monca, che ti devi pagare. Chi sceglie la medicina omeopatica se la paga; chi sceglie una scuola con un altro tipo di visione rispetto alla pubblica, se la paga. Questo succede nel nostro paese, nei paesi mediterranei, a differenza dei paesi mitteleuropei o scandinavi. Dove la libertà di educazione davvero esiste, le altre scuole che non siano quella di stato hanno la libertà di proporre la loro offerta formativa: lo stato lascia ai genitori la facoltà di fare le proprie responsabili scelte e sostiene anche i cittadini delle scuole altre. Perché non vuole omologare la cittadinanza in un solo tipo e un solo modello di scuola. Si sono sprecati fiumi di inchiostro e sono stati versati fiumi di sangue per la libertà, ma c’è ancora tanto da fare.

Non è necessario, sempre, dalle elementari alle superiori, lasciare ai ragazzi del tempo per coltivare altre qualità oltre all’efficienza della mente?

Certo, se potessero parlare i bambini, o perlomeno quella parte dell’adulto che vive in un bambino, direbbero: sì!, per cortesia, non fateci stare seduti tutto il tempo sui banchi ad ascoltare, a chiederci di studiare da pag. 15 a pag. 18! Se orientiamo l’attenzione ai piccoli, scopriamo che c’è un respiro, nell’arco della giornata, che non li stancherebbe affatto. Possiamo alternare le discipline, tenendo presente che ci sono materie che impegnano di più la testa, materie che impegnano di più la vita emozionale e materie che impegnano di più la volontà. La matematica, per esempio, richiede concentrazione. La pittura, la scultura, la recitazione e l’arte plastica fanno leva sul nostro mondo del sentimento. Le attività laboratoriali coinvolgono le mani. Se noi alterniamo le discipline, nell’arco della giornata, in maniera da impegnare una volta di più la testa, una volta di più le mani, una volta di più la vita di sentimento, scopriremo che la giornata non stanca affatto. Anzi: nutre. C’è una diffusa gioia di sapere, di scoprire quale sarà la materia che verrà dopo.

Poi, è cruciale l’atteggiamento interiore degli insegnanti. Sappiamo che l’insegnante medio di solito ritiene che il bambino non sia che un vuoto da riempire, che deve fare silenzio e ascoltare. E qui apro una parentesi molto dolorosa. Bisognerebbe avere il coraggio, come insegnanti, di dire che, a volte, ci sono dei bambini anche più intelligenti di noi; il rischio che comporta un atteggiamento interiore parzialmente disonesto è che i bambini più intelligenti, più dotati, incomincino a creare grossi problemi disciplinari.

C’è, infine, un quarto tema: la motivazione. Muovere la motivazione dei ragazzi significa renderli partecipi al loro apprendimento. Su questi quattro ingredienti – argomenti, metodo, atteggiamento interiore e motivazione – si può lavorare tantissimo per rendere stimolante l’andare a scuola e trasformarlo in un percorso che veramente sostenga e aiuti, in un momento storico in cui le famiglie possono spesso ben poco.

È vero, almeno qualche volta, che “lo stupido istruito ha solo un campo più vasto per praticare la sua stupidità”?

L’inefficacia dell’istruzione inizia laddove si pensa che l’istruzione sia l’elemento fondamentale per stare al mondo. Ma senza un binario equo di istruzione ed educazione noi non formiamo i cittadini del nostro tempo.